Problema principe della sentenza in esame attiene alla configurazione, alla possibile risarcibilità, nonchè quantificazione della fattispecie del danno da ritardo.
In particolare, il danno da ritardo è quel danno che si determina ogni qualvolta la P.A. ometta di porre in essere un provvedimento richiesto dal cittadino, con la conseguenza che tale prolungata e illegittima inerzia dell’agente pubblico cagiona la lesione di interessi del privato meritevoli di tutela.
Questione centrale per comprendere la rilevanza della responsabilità in capo alla P.A. è la valutazione della consistenza della dimensione temporale nell’ambito del diritto amministrativo. Il tempo ed il decorso dello stesso hanno, infatti, da sempre avuto notevole rilevanza giuridica, essendo il fenomeno temporale, di per sé, in grado di determinare pregevoli conseguenze sul piano della costituzione o della modifica di situazioni giuridiche soggettive.
Tuttavia se, da un lato, la dimensione temporale ha assunto un ruolo saliente nel diritto civile e in ambito penale, di certo non può dirsi lo stesso circa l’assetto normativo di diritto amministrativo; in quest’ultimo contesto, il tempo, aveva assunto un ruolo secondario, quale necessario intercalare tra le istanze dei privati e l’azione della pubblica amministrazione.
Il legislatore si è nel tempo variamente adoperato, al fine di conferire all’assetto temporale un ruolo di maggior rilevanza nel diritto amministrativo, creando, così, istituti che andassero ad incidere sulla dimensione temporale. Con l’introduzione della L.241/1990 che all’art. 2 dispone l’obbligo in capo alla pubblica amministrazione di concludere il procedimento attraverso un provvedimento espresso che si manifesti necessariamente entro un lasso di tempo determinato, l’aspetto temporale ha assunto un’importanza fondamentale, arrivando a costituire il parametro di valutazione dell’agere pubblico.
Da allora lo scenario è mutato, infatti la risarcibilità degli interessi legittimi, la modifica della disciplina del silenzio e l’elaborazione giurisprudenziale di un’autonoma categoria di “danno da tempo perduto” si muovono nella direzione della tutela dell’interessato, rimarcando la meritevolezza dell’interesse tutelato dagli artt. 2 e 2bis della L.241/90 che correlano all’obbligo giuridico di provvedere non già una “mera aspettativa di provvedimento”, bensì un interesse qualificato e differenziato all’osservanza delle regole procedimentali e, in particolare, alla tempestività dell’azione amministrativa.
Come detto, affermatasi la rilevanza dell’aspetto temporale, si è, conseguentemente, affermata la responsabilità in capo alla p.a. per il ritardo nell’adozione di un provvedimento.
La nota sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 ha segnato il definitivo abbandono della concezione sanzionatoria della responsabilità comportando, di conseguenza, il riconoscimento della funzione precettiva dell’art. 2043 c.c., che ha iniziato ad essere intesa non più come norma punitiva della violazione di prescrizioni aliunde poste dall’ordinamento giuridico a tutela di diritti assoluti, bensì come prescrizione essa stessa attributiva di un autonomo diritto soggettivo al risarcimento del danno subito dall’intrusione illecita nella sfera giuridica altrui.
L’area della risarcibilità viene definita da una clausola generale, espressa dalla formula “danno ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento.
Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è una norma secondaria, volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme, bensì è una norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto per effetto dell’attività altrui.
In altre parole, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.
Nel solco delineato dalla Corte di Cassazione, rispettose di tale rinnovata impostazione, dottrina e giurisprudenza hanno focalizzato l’attenzione sulla persona del danneggiato e sul carattere non jure del danno subito sposando la cd. funzione riparatoria, in cui il risarcimento assolve il compito fondamentale di ristorare il danneggiato dalla lesione subita, in relazione alla quale il risarcimento viene parametrato, senza più essere inteso, quindi, come semplice reazione dell’ordinamento avverso il comportamento illecito del danneggiante ricollegato alla sola lesione di diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva la responsabilità è volta a sanzionare il danno contra jus e non jure che in senso lato può essere definito come il pregiudizio arrecato alla sfera giuridico-economica di un soggetto, quale perdita economicamente rilevante conseguente alla lesione di un bene o di un interesse.
Nella struttura dell’art. 2043 c.c. il danno costituisce allo stesso tempo presupposto e oggetto della tutela accordata dall’ordinamento al soggetto leso dal comportamento illecito altrui dal cui origina l’obbligo di risarcire il danno. Il concetto di danno, quindi, appare strettamente connesso a quello di risarcimento sostanziandosi “in quel fenomeno nei confronti del quale l’ordinamento appresta quel particolare rimedio che è il diritto del danneggiato al risarcimento”.
La questione relativa alla selezione delle voci di danno risarcibili ha assunto nel tempo un rilievo centrale dando vita, in dottrina, ad un ampio dibattito mai sopito e riassumibile in due concezioni di danno difficilmente conciliabili tra loro. Secondo una prima elaborazione il danno si identificherebbe con l’alterazione negativa di una determinata situazione della vittima, non necessariamente economica, ma anche fisica o psichica; secondo altri, invece, esso coincide con la lesione del diritto o dell’interesse protetto.
In realtà, tali indicazioni non essendo esaustive non avrebbero potuto di per sé garantire alcuna tutela giurisdizionale, tanto più in assenza di un giudizio di disvalore che ne costituisce il necessario ed indefettibile presupposto. Lo stesso concetto di danno è stato variamente interpretato dalla dottrina che l’ha definito “perdita o diminuzione patrimoniale”, nonché “prezzo di composizione per il pregiudizio arrecato”.
Secondo la prima impostazione il danno si identifica nella differenza esistente nel patrimonio del danneggiato in conseguenza dell’illecito subito, equivalente alla sottrazione tra l’ammontare del patrimonio del danneggiato in un certo momento storico e la consistenza che il patrimonio avrebbe avuto se non si fosse verificato l’illecito.
Secondo altra impostazione, il danno non è un dato extragiuridico che riceve copertura dall’ordinamento giuridico, bensì è esso stesso un dato normativo, ove ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge. Va osservato che la prima interpretazione non coglie nel segno, è infatti facile obiettare che non tutte le modificazioni peggiorative di una realtà fenomenica trovano un rimedio nell’ordinamento, con la conseguenza che spetta esclusivamente alla legge selezionare tra le conseguenze pregiudizievoli quelle meritevoli di tutela risarcitoria; il danno rilevante per l’ordinamento non è, dunque, il danno in senso naturalistico, ma il danno in senso giuridico. Sulla base di tali osservazioni la dottrina ha potuto distinguere tra le diverse tipologie di danno, ed affermare che il danno patrimoniale rientra nell’alveo dell’art. 2043 c.c.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza de qua, seguendo il filo giurisprudenziale sopra esaminato, ha ritenuto sussistente, in capo alla pubblica amministrazione, una responsabilità per danno da ritardo ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Ricorrendo tutti gli elementi richiesti dalla disciplina codicistica (il fatto, l’ingiustizia del danno, il nesso causale e la colpevolezza), la Sezione ha concluso affermando che “gli atti impugnati in primo grado sono stati emessi in palese violazione del principio del buon andamento dell’azione amministrativa”, l’Università, infatti, ha impedito al ricorrente, “ingiustamente ed ingiustificatamente, di svolgere il ruolo di ricercatore per cui era stato selezionato”. Peraltro, il carattere negligente, imprudente o imperito dell’agire dell’Amministrazione nel caso concreto emergeva già alla luce della lettura delle sentenze del 2011.
Relativamente alla contestazione circa il “quantum” risarcitorio riconosciuto dal giudice di primo grado e commisurato in sentenza all’intero ammontare della retribuzione stabilita per la qualifica di ricercatore universitario ma non percepita dal dott. Migliau nel periodo da maggio 2009 a novembre 2011, il Consiglio di Stato ha, invece, accolto la censura dell’Università merita di essere accolta, sia pure solo in parte.
In particolare, seguendo la scia di una recente sentenza dello stesso Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 2792/2016), riferita a un caso sotto taluni aspetti analogo, che aveva giudicato congrua la determinazione, in via equitativa, del risarcimento, nella misura del 50% delle retribuzioni che sarebbero spettate al docente universitario per il periodo di mancata assunzione, e ciò proprio in ragione del fatto che in tale periodo il destinatario del risarcimento ben aveva potuto impegnare le proprie energie in ogni altra attività, anche lavorativa è stato ritenuto che la quantificazione per equivalente del danno risarcibile, nel caso di omessa o ritardata assunzione di un pubblico dipendente, non si identifica in astratto nella mancata corresponsione della retribuzione per intero in quanto nel periodo di mancata assunzione il soggetto interessato non ha dovuto impegnare le proprie energie lavorative nell’interesse esclusivo dell’Amministrazione ma ha potuto rivolgerle alla cura di ogni altro interesse. Peraltro, la reintegrazione piena del patrimonio sarebbe ammissibile soltanto se si verificasse una interruzione illegittima di un rapporto di lavoro già in essere, ma non anche nel caso di ritardo illegittimo nella costituzione del rapporto di impiego medesimo.
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